Andrea Bartolini è il primo esempio di chef non chef. Nel senso che pensa i suoi piatti, li progetta, li comunica, ma non li cucina materialmente, contribuendo semmai a che siano fatti bene con il suo parere, il suo sguardo, i suoi consigli, il suo assaggio. In una parola: architetto dei fornelli. Se ha preferito appendere la laurea al chiodo e dedicarsi alla ristorazione, forse è dovuto anche al fatto di essere figlio d’arte. I Bartolini infatti sono giunti alla terza generazione di ristoratori. Cominciò nonno Marcello Bartolini, pescatore di professione e per passione, che diventò poi oste. Proseguì la tradizione il figlio Stefano (padre di Andrea), laureato in economia, che aprì il suo primo locale nel 1985. Ed ora è la volta del giovane Andrea.
Bartolini che cos’è per lei la cucina?
«E’ lavorare sulla materia prima, sulla valorizzazione. Quando mi chiedono che tipo di cucina facciamo al Ristorante La Buca, rispondo: contemporanea. Ma c’è sempre un soggetto, ovvero il pesce del nostro mare che poi viene vestito con creatività, mantenendo intatti il gusto e la consistenza dei pesci che andiamo a proporre».
Che ruolo ha nel suo ristorante?
«Il rompiballe».
In che senso?
«Nel senso seguo i piatti dalla nascita all’esecuzione, in una parola controllo».
Lei è un architetto: che nesso c’è tra la sua formazione e la cucina che si trova a frequentare?
«La progettualità. Quando si pensa alla base c’è uno schema su cui ci si muove. Sia nel piatto di grande tradizione che in quello contamporaneo, ci deve essere una idea che poi va sviluppata in diversi modi».
Possiamo dire che i suoi piatti vengono progettati con squadra e compasso?
«Non proprio, direi che i miei strumenti in cucina sono le emozioni, fortemente legate all’ambiente che ho creato. Al Ristorante La Buca c’è una relazione tra l’aspetto architettonico del locale, caratterizzato da ruggine, cemento armato grezzo che rifrange la luce, e i piatti che serviamo che devono essere veri e riflettere la luce del nostro pensiero. Se ho una grande mozzarella di bufala, non la distruggo ma la valorizzo per quella che è. Il prodotto è fatto di sapore e sostanza, consistenza, fibra, e questo vale per un calamaretto, per una triglia come per un carciofo che vanno serviti semplicemente».
Che tecniche adopera per raggiungere questi scopi?
«Dalle più classiche alle più moderne. Amo l’osmosi, una tecnica particolare con cui la frutta o la verdura vengono prima disidratata e poi reidratata con un elemento che scelgo. Ad esempio, disidrato la zucchina e poi la profumo con lo zenzero, l’unica maniera per evitare la chimica o modificare la grana del prodotto. In questo modo evito cotture con panna o latte, non aggiungo grassi o profumi, ma creo le condizioni perché verdura e frutta invece che riempirsi di acqua si riempino di profumi. La stessa tecnica usiamo per la profumazione degli oli».
E per il pesce?
«Usiamo tecniche più semplici, classiche e che rispettino i sapori e le qualità organolettiche: il vapore, o le preparazioni a forno statico cioé andando a scaldare in modo forte il prodotto, o ancora la cottura con una plancia cromata, evoluzione della piastra di ghisa della piadina. Su questa piastra c’è una pellicola di cromo che ci permette una cottura molto veloce, perché le temperature arrivano a 300 gradi: è un materiale antiaderente, così lavoriamo con meno grassi e meno olio possibile. Il pesce insomma viene cotto senza aggiungere elementi particolari, garantendoci una parte interna più croccante e la parte interna quasi cruda».
A proposito, cosa ne pensa del sushi?
«Non sono un grande patito di sushi, penso che il pesce non abbia bisogno di alghe o riso al suo fianco. Nel sushi il pesce è uno degli ingredienti, non l’ingrediente. Quando mi fanno i complimenti per il crudo, rispondo che bisogna fare i complimenti alla mamma del pesce».
CHI E’
Andrea Bartolini, 27 anni, nato a Cesenatico il 17 maggio 1983, si è laureato in Architettura alla Facoltà di Ferrara. E’ proprietario e “progettista” della cucina del Ristorante La Buca di Cesenatico: in pratica è colui che pensa i piatti e poi suggerisce allo chef accorgimenti per valorizzarli al meglio. «Faccio parte — dice — di una cucina democratica: ci sediamo, parliamo e cerchiamo di ottenere quello che vogliamo. Poi si entra in cucina e si prova e su un piatto possiamo studiarci anche due anni».
Davide Eusebi – il Resto del Carlino | ed. nazionale – 21 febbraio 2011