In un tempo non troppo lontano, nelle nostre campagne, quando ci si accorgeva che le giornate cominciavano ad allungarsi, alla fine dell’Inverno, si era certi che presto avrebbe ricominciato a passare la pescivendola.
In passato infatti, il pesce era venduto a domicilio dalle pisàeri (solitamente mogli dei pescatori della riviera): generalmente giravano per le campagne in sella a curiose “biciclettone” corredate dal sgiùl, un supporto di ferro che sosteneva la cassetta (spesso di legno) nella quale veniva trasportato il pesce.
Un altro “strumento” indispensabile era la sporta di plastica o di juta appesa al manubrio che serviva per contenere la bilancia (la stadìra) e la carta che avrebbe avvolto il pesce venduto.
C’è chi racconta che questi “trabiccoli” pareva che avessero il motorino dal tanto che ronzava lo sciame di mosche e di vespe che accompagnavano le pescivendole e le loro cassette contenenti il pesce.
E … che pesce era quello contenuto in quelle ceste?
Povere, molto economiche e piene di spine, erano quelle varietà che sui banchi dei pescivendoli stanziali (avendo una clientela varia acquistavano sogliole, razze, merluzzi) sarebbero restate invendute: poveracce, zanchetti, morsioni e paganelli, saraghine, sarde e sardoni.
Però era fresco, appena sbarcato dai pescherecci dei mariti delle pescivendole: spesso infatti gli uomini che praticavano la professione di marinai, dopo giorni di mare, affidavano alle loro donne la vendita.
Contrariamente alle donne della realtà contadina, i cui ambienti di vita e di attività erano prevalentemente costituiti dalla casa e dai campi e in cui si muovevano sotto il costante e vigile sguardo degli uomini di casa, la moglie del pescatore si trovava ad affrontare situazioni ben diverse: costrette fuori casa per la maggior parte della loro giornata, impegnate nello smercio del pescato, con il marito lontano per periodi anche lunghi, doveva gestire la famiglia in autonomia e sobbarcarsi di responsabilità non indifferenti.
Il tutto in realtà caratterizzate da una grande precarietà: l’incerto esito della pesca, l’imprevedibilità del mare, fonte di continue ansie e timori, il peso dei figli da allevare praticamente da sole, rendevano alle pescivendole la vita davvero dura.
Dovevano essere sempre pronte all’approdo dei mariti per poi partire alla volta delle pescherie e delle campagne circostanti e proprio per questo motivo, molte di loro avevano imparato a riconoscere da terra la vela dell’imbarcazione del marito che spesso avvistavano anche a chilometri di distanza.
C’era anche chi comperava il pesce all’ingrosso: ecco allora che queste donne (spesso parenti o vicine di casa) si organizzavano in piccoli gruppi, condividendo le spese di acquisto e i ricavi della vendita.
Sia che fossero mogli di pescatori, sia che acquistassero il pesce, la loro giornata cominciava molto presto: fin dalle quattro del mattino, dopo aver sbrigato le faccende di casa, cominciavano a pedalare, anche per svariati chilometri, per raggiungere la campagna; quelle più fortunate avevano il “birroccio” trainato da un cavallo.
Era consuetudine che ogni donna avesse un proprio territorio e di solito veniva “passato” di madre in figlia.
E spesso quello che si realizzava non era una vera e propria vendita, bensì un baratto che nella maggior parte dei casi non seguiva una rigorosa logica di mercato: i rapporti fra il mondo del mare e della campagna era infatti caratterizzato da solidarietà e fiducia.
Mantenere solidi legami con il mondo rurale, era molto importante per le precarie situazioni di chi viveva dei frutti del mare perché, soprattutto nei periodi di crisi (come accadde nel periodo delle guerre e nel passaggio del fronte), o anche semplicemente durante i mesi invernali quando le piccole imbarcazioni non potevano affrontare il mare, le campagne diventavano risorsa e riserva.
Ed erano le donne a sobbarcarsi questi difficili compiti: succedeva spesso infatti che mogli e figlie di marinai si presentassero dai contadini con del pesce da donare in cambio dell’accesso ai campi per raccogliere lo scarto dei raccolti (spigolatura nelle terre di grano, mais, patate, ortaggi …).
Poi ancora, le donne dovevano pensare alla raccolta delle erbe commestibili, da foraggio per le poche bestie di casa, o da combustibile: si organizzavano ancora una volta in gruppi e andavano a fè l’èrba: giunco marino e falasco erano il raccolto della spiaggia e venivano usati come combustibile, erba medica e gramigna per gli animali.
Infine le erbe per le insalate e da usare in cucina erano senape, cicoria, radicchi selvatici, borraggine, selene, artemisia, asparagi, lattughino, romice, crespino, tarassaco: assieme a pesce e piadina (spesso solo di farina gialla) erano alla base dell’alimentazione marinara.
Giorgia Lagosti